all'inseguimento del "modello americano"

Giocarsi la pensione in borsa?


Secondo i rapporti ufficiali e le campagne allarmiste, in Francia, ma non solo, l'invecchiamento della popolazione finirà per rimettere in questione il sistema delle pensioni per ripartizione. Secondo alcuni, questo sistema dovrebbe essere integrato da un sistema individualizzato di capitalizzazione. Un esame degli argomenti addotti rivela tuttavia la loro mancanza di correttezza scientifica, come pure un'ignoranza delle carenze e dei fallimenti del modello americano costantemente portato a esempio. Dominique Strauss-Khan, principale promotore in seno al governo del progetto sui fondi-pensione, sembra fare assegnamento sull'ingenuità o l'ignoranza del pubblico quando battezza "piano pensioni sicure" un sistema che sarebbe, al contrario, ostaggio degli investimenti speculativi. Dopo l'Asia orientale e la Russia, il Brasile costituisce tuttavia un edificante esempio del pericolo costituito dai flussi finanziari incontrollati. Flussi dei quali i fondi pensione costituirebbero la principale componente

di MICHEL HUSSON *

La popolazione invecchia, e di conseguenza le pensioni per ripartizione esploderanno: quindi, bisogna introdurre una dose di capitalizzazione (1). Il discorso non è nuovo: fin dal 1980, il commissariato generale del piano denunciava la capitalizzazione come un "regresso sociale fondato su illusioni economiche. Eppure, oggi è il commissario in persona, Jean-Michel Charpin, a coordinare una commissione di concertazione, nel cui ambito le parti sociali subiscono il martellante messaggio della capitalizzazione anche se le due asserzioni sulle quali si basa sono errate: la ripartizione si concilia senz'altro con l'invecchiamento demografico certamente meglio della capitalizzazione, che oltre ad essere un salto nell'ignoto, è sicuramente una macchina da guerra della finanza contro il salario.
La nota della commissione Charpin, che presenta le proiezioni demografiche e macro-economiche da oggi al 2040, contiene questa significativa perla: "Per il prossimo mezzo secolo, le incertezze sull'evoluzione della disoccupazione sono considerevoli, e inducono a privilegiare un approccio in termini di disoccupazione d'equilibrio. Ora, le stime recenti sono relativamente convergenti verso un livello del 9%". E' dunque questo tasso di disoccupazione "d'equilibrio" altri avrebbero detto "naturale" che un documento ufficiale adotta quale riferimento per i prossimi quarant'anni Non è il caso di soffermarsi qui sui particolari di una "teoria" tanto carente, che non riesce a quantificare il famoso "tasso d'equilibrio (3)", ma non esita a proiettarlo su due generazioni.
Per meglio drammatizzare la situazione, si fa ricorso a vari artifici nell'esposizione. Nel caso delle pensioni dei funzionari, un'altra nota della commissione Charpin (4) stabilisce che il loro costo passerà da 172 miliardi di franchi nel 1998 a 453 miliardi nel 2024 (1 franco=290 lire circa).
Questo aumento corrisponde di fatto a una crescita annua del 2,3%, che per dar prova di un minimo di onestà intellettuale si dovrebbe comparare a quella del bilancio dello stato nello stesso periodo. Invece è questa la prodezza non si fornisce alcun dato che consenta di procedere a questo esercizio. In un altro dossier della stampa si insiste sul fatto che la spesa per le pensioni è destinata a triplicarsi nei prossimi 40 anni. Una previsione stravagante a priori, e quindi adatta a un titolo di richiamo, ma che comporta dopo tutto soltanto una crescita annua del 2,8%. E se ci si prende il disturbo di fare qualche calcolo retrospettivo, si scopre che l'ammontare delle pensioni non si è moltiplicato per tre, ma per dieci, nel corso degli ultimi quarant'anni (5) ! Si era triplicato già nell'arco di dodici anni, tra il 1961 e il 1973, e una seconda volta in quindici anni, tra il 1973 e il 1998.
La discussione in atto verte sul rapporto proporzionale di dipendenza, che indica il numero dei pensionati rispetto a quello dei lavoratori attivi. L'aumento del numero dei primi in questo rapporto proporzionale comporta logicamente, per assicurare l'equivalenza di contributi e pensioni, un aumento del tasso delle contribuzioni d'equilibrio. Nell'esposizione ufficiale, tutto si fonda poi sulla presunta "intollerabilità" di questo aumento contributivo, conseguente allinvecchiamento della popolazione.
Eccoci dunque alle prese con la questione di quanto questi prelievi obbligatori siano "tollerabili". Ipotizzando che per essi non esista alcun tetto, l'adeguamento al nuovo regime demografico potrebbe avvenire in maniera graduale, certo con il presupposto che i progressi della produttività procedano al ritmo attuale; e in tal caso la riflessione potrebbe fermarsi qui. Se, al contrario, si pensa che esista realmente un tetto del genere, si impone una riflessione sul modo di superare l'ostacolo. La tesi diffusa ma diffusa da chi, e al servizio di quali interessi? secondo la quale questo tetto sarebbe fin d'ora raggiunto, deve essere sottoposta alla prova dei fatti (6); si vedrà così che è tutta costruita su un'eccessiva e irresponsabile drammatizzazione delle proiezioni.
L'astuzia consiste nel gettare in pasto al pubblico aumenti contributivi reputati "insopportabili", mentre si trascurano due fattori importanti: innanzitutto, il fenomeno si ripartirà su un periodo di quarant'anni, per cui la nozione di tollerabilità va vista in prospettiva. Il sistema a ripartizione ha per l'appunto il vantaggio di permettere di effettuare anno dopo anno i necessari aggiustamenti, in parallelo con quelli che si renderanno necessari nella società. La seconda "dimenticanza" riguarda l'evoluzione del potere d'acquisto, e il fatto che il contributo più elevato si applicherà a un reddito il cui potere d'acquisto sarà considerevolmente aumentato (7).
Se si vuole ragionare con chiarezza, il tasso contributivo deve essere misurato in termini equivalenti di produttività. A questo scopo, ci si può attenere a due semplici regole, basandosi su un aumento della massa salariale globale equivalente a quello del prodotto interno lordo (Pil), e su un aumento della pensione media equivalente a quello del salario netto medio. Sono queste le sole norme legittime a lungo termine, anche se non si può certo dire che in questi ultimi anni la loro validità abbia trovato conferma. In base a questi presupposti, il trasferimento dai salari alle pensioni che si desume dalle cifre della commissione Charpin non supera mezzo punto di produttività (8): un dato che peraltro coincide con le valutazioni precedenti (9). E ricordiamo che per quanto riguarda l'evoluzione della popolazione attiva, questa ipotesi si fonda sulle previsioni restrittive sopra ricordate.
Presupponendo una riduzione del tasso di disoccupazione e del lavoro a tempo parziale, che la commissione Charpin considera come risultati durevolmente acquisiti, si può prevedere di ridurre questo trasferimento dallo 0,5% allo 0,35% l'anno.
Perciò, parlare di un aumento "insopportabile" del tasso contributivo significa deformare una realtà i cui possibili sbocchi potrebbero essere prospettati in maniera molto più positiva.
Assumendo come base una crescita della produttività del 2% l'anno (molto vicina alla media del secolo che volge alla fine) esiste ad esempio la possibilità di far progredire le pensioni allo stesso ritmo dei salari netti (0,5% dell'aumento di produttività), di ridurre progressivamente l'orario di lavoro settimanale a 30 ore (lo 0,6% dell'aumento di produttività) e di assicurare un aumento generale del potere d'acquisto dello 0,9% l'anno. E tutto questo, senza neppure aumentare il sacrosanto costo del salario per unità di prodotto. Il potere d'acquisto di tutti sarebbe così aumentato del 50%. Partendo da scelte diverse, si può anche prevedere per il 2040 una situazione in cui l'orario di lavoro settimanale sia ridotto a sole 25 ore, e tutti i redditi dei salariati come dei pensionati siano aumentati del 25% rispetto al livello attuale.
L'aumento contributivo risulta tanto più accettabile quanto più sono elevati gli aumenti di produttività. L'accettabilità tuttavia dipende anche da altri due fattori. Il primo è la simultaneità delle scelte adottate nella ripartizione: il tasso contributivo medio, così come tutti gli altri parametri del sistema, possono essere aggiustati passo dopo passo. I conflitti sociali suscitati da scelte di questo tipo avverrebbero comunque nella trasparenza, mentre con la capitalizzazione si entra nel regno dell'opacità individuale e dell'incertezza. Inoltre, il trasferimento dei salari verso le pensioni trova la sua legittimazione nel fatto che la proporzione dei non attivi rispetto alla popolazione complessiva aumenta, se mai, soltanto di poco, dato che l'aumento del numero degli anziani è in parte compensato dall'abbassamento di quello dei giovanissimi. In questo senso, l'aumento contributivo può essere interpretato come un mezzo per realizzare il trasferimento dei costi privati per l'educazione dei bambini verso l'assistenza socializzata agli anziani. (10) Si sostiene che per scongiurare il rischio di un'implosione delle pensioni a ripartizione sia indispensabile introdurre una dose di capitalizzazione. Innanzitutto, non si vede bene in base a quale rapporto: come può la modalità di finanziamento modificare la somma da finanziare? La teoria economica ha stabilito da tempo l'equivalenza tra i due sistemi (11), con riserva di verifica della fondamentale equivalenza tra il tasso di rendimento dei titoli finanziari e il ritmo di crescita dell'economia: un'equivalenza che però non esiste in ragione dell'impennata delle borse occidentali in questi ultimi anni.
Olivier Davanne, del Consiglio di analisi economica di Lionel Jospin, già membro della banca d'affari Goldman Sachs, ha quindi potuto sviluppare, in un recente rapporto, l'argomentazione seguente: "Poiché il risparmio- pensione corrisponde generalmente a un investimento a lungo termine, il differenziale di rendimento tra i sistemi esercita uno straordinario effetto leva sul risparmio necessario per preparare la propria pensione: da un franco immobilizzato per trent'anni si può arrivare a 1,8 se il denaro è investito al 2% (rendimento con regime a ripartizione) o 4,3 franchi se il tasso è del 5% (ordine di grandezza ragionevole per il rendimento sul lungo periodo di un portafoglio diversificato). E' dunque evidente che per raggiungere uno stesso livello di prestazioni, un sistema fondato sul risparmio risulta assai meno costoso". (12) Se questo discorso pubblicitario, degno di un agente assicuratore, fosse veritiero, perché non proporre immediatamente il passaggio in blocco alla capitalizzazione?
L'obiezione classica è quella della necessità di una transizione: bisogna che i lavoratori attivi paghino per i pensionati di oggi e contemporaneamente risparmino per la propria pensione di domani. Ma se dovessimo credere a Davanne, la superiorità della capitalizzazione sarebbe tale da indurci a relativizzare anche questa obiezione (13).
Di fatto, l'idea che la capitalizzazione sia durevolmente più redditizia va ascritta a una forma moderna di accecamento mercantilista, per cui si è indotti a pensare che l'accumulazione di titoli equivalga alla produzione di beni. Ma indipendentemente dal modo di finanziamento delle pensioni, il consumo dei pensionati riguarda beni e servizi prodotti al momento del consumo. Ora la capitalizzazione consiste nell'accumulare titoli finanziari, non beni di consumo: essa non potrebbe dunque in alcun modo compensare una carenza dell'offerta di questi beni, risultante da una proporzione ridotta di lavoratori attivi. La grande mistificazione dei fondi pensione consiste nel suggerire il contrario, accreditando una favola in cui la formica previdente della capitalizzazione è contrapposta alla cicala della ripartizione.
Una favola che non regge, come lo stesso commissario del piano è stato costretto a ricordare nel suo commento al rapporto Davanne: "E' nell'economia reale che va ravvisata la vera difficoltà (...) La finanza non ha la capacità di trasferire nel tempo i crediti reali". Se, di qui a vent'anni, i redditi globali con l'inclusione delle pensioni capitalizzate risultassero superiori alla produzione, si andrebbe incontro a un aumento dell'inflazione; infatti, prosegue Charpin, "il livello generale dei prezzi è endogeno". In altri termini, "per ciascuno dei dispositivi previsti è necessario esplicitare il modo in cui genererà una quantità aggiuntiva di beni e di servizi". Una "dose" da rifiutare Siamo effettivamente tuttora in attesa di questa esplicitazione E non a caso: la tesi secondo la quale la capitalizzazione permetterebbe di accrescere il rendimento economico reale (il tasso di crescita) è indimostrabile, poiché questa pretesa superiorità non può che autodistruggersi. Lo ha sottolineato il deputato socialista Jerôme Cahuzac, il quale però detto per inciso non si è accorto che il suo argomento vale anche per il nuovo prodotto risparmio-pensione da lui proposto: "Il passaggio massiccio alla capitalizzazione farebbe scomparire l'attrattiva stessa di questo sistema, cioè l'elevato rendimento reale delle azioni rappresentatrici (sic) del capitale produttivo (14)" .
L'Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (Ocse) descrive il meccanismo nei dettagli: "Tra 10-20 anni, via via che la fascia di popolazione appartenente alla generazione del baby boom andrà in pensione, questi pensionati avranno probabilmente un comportamento da venditori netti di una parte almeno dei titoli accumulati durante la loro vita di lavoro. E poiché la generazione successiva sarà meno numerosa, esiste la possibilità di un calo del prezzo dei titoli. Inoltre, sempre a causa della minore consistenza numerica di questa generazione, lo stock dei capitali aumenterà più rapidamente della forza- lavoro, e ciò rafforzerà la tendenza all'abbassamento dei rendimenti sugli attivi reali. E' dunque possibile che al momento del pensionamento, la generazione del baby boom scopra di ottenere dai fondi pensione un reddito inferiore a quello previsto in base alla semplice estrapolazione delle tendenze attuali (15)".
A questo ragionamento, i propagandisti dei fondi pensione ribattono che non si tratta di passare da un regime all'altro, ma solo di introdurre una "dose" di capitalizzazione. Una posizione evidentemente incoerente: se infatti la portata del problema è quella che descrivono, se riguarda miliardi di franchi e condiziona il finanziamento delle imprese (leggere, nella pagina accanto, l'articolo di Dominique Plihon), allora una risposta adeguata non può essere di tipo omeopatico. In un momento in cui la crisi finanziaria prosegue il suo corso e le sue devastazioni, la regola d'oro dovrebbe invece essere più che mai quella della massima cautela nel ricorso a una finanza incontrollata e incontrollabile, per puntare invece prioritariamente sull'attività economica reale. Dopo tutto, per finanziare le pensioni la creazione di posti di lavoro è un metodo più saggio e durevole che giocarle in borsa. Vista la debolezza dei loro argomenti, l'ostinazione dei fautori della capitalizzazione è un vero mistero. La spiegazione potrebbe avere un nome: cannibalismo. La vera funzione dei fondi pensione non sarebbe allora quella di risolvere il problema delle pensioni, bensì di esercitare pressioni sull'evoluzione del sistema a ripartizione. In altri termini, l'esistenza di questi fondi e in quest'ottica una dose può effettivamente bastare fornirebbe il pretesto per congelare la progressione della ripartizione e incidere sulle sue modalità.
Vi sono dunque serie ragioni per rifiutare in assoluto il principio stesso alla base: cedere, anche di poco, equivarrebbe a degradare i rapporti di forze in questo campo. A fronte di un Medef (Movimento delle imprese di Francia, ex Cnpf) che propone ad esempio di portare a 45 gli anni di lavoro che danno diritto a una pensione non decurtata, è necessario costruire questo rapporto di forze all'interno del sistema a ripartizione.

note:
* Economista, coordina la riflessione sulle pensioni in seno all'Associazione Attac e alla Fondazione Copernic.

(1) Si distinguono due forme principali di pensionamento: nella ripartizione, il contributo prelevato sui salari dei lavoratori serve a pagare il reddito di tutti i pensionati. Nella capitalizzazione, la pensione è una rendita proveniente dal risparmio accumulato da ciascuno durante la propria vita di lavoro.
(2) Vieillir demain, rapporto del gruppo Prospective personnes ëgées pour le VIIIème plan, La Documentation française, Parigi, 1980.

(3) Uno studio pubblicato nel 1996 dalla rivista della Commissione europea valutava a 90 su 100 le probabilità che nel 1994 il tasso di disoccupazione d'equilibrio in Europa fosse compreso tra il 2,8% e il 18,8%! Gli scettici potranno convincersi leggendo il capitolo corrispondente del "Rapporto economico 1995" pubblicato su Economie européenne, N&oord 59, e ripreso da Problèmes économiques, n&oord 246, 28 febbraio 1996, La Documentation française, Parigi.

(4) "Le régime de retraite des fonctionnaires de l'Etat à l'horizon 2040". Nota della Direzione del bilancio del ministero dell'economia e delle finanze, novembre 1998.

(5) Questa informazione non figura evidentemente in nessun documento della commissione Charpin. Per ricostituirla, si è utilizzato l'Annuaire rétrospectif de la France 1948-1988 dell'Institut National de la Statistique et des Etudes Economiques (Insee), e il numero di novembre 1997 di INSEE-Synthèses, dedicato ai redditi sociali (tabella 3, pag.
23).

(6) Didier Blanchet, "Retraites et croissance à long terme: un essai de simulation", Economie et prévision, n&oord 105, 1992- 1994, Direzione della previsione del ministero dell'economia e delle finanze, Parigi 1992.

(7) Allo stesso modo, quarant'anni di crescita annua dell'1,7% comportano un raddoppio del prodotto interno lordo (Pil).
Leggere René Passet "La grande mistificazione dei fondi pensione" e François Chesnais "Le pensioni di domani in balia dei mercati" rispettivamente in le Monde diplomatique/il manifesto di marzo e aprile 1997.
(8) A partire dalle ipotesi del rapporto Charpin, la proporzione tra il numero degli aventi diritto (attivi e pensionati) e il numero di attivi passa da 1,46 nel 1995 a 1,84 nel 2040. E' dunque moltiplicato per 1,26, il che equivale a un aumento annuo dello 0,5%.

(9) "Prendiamo il periodo di degrado più rapido, vale a dire quello compreso tra il 2005 e il 2025. In questo periodo, basterebbe un aumento di produttività dell'ordine dello 0,5% l'anno per compensare la diminuzione relativa del numero di attivi", scrivevano Didier Blanchet, ora vice- presidente del Medef, e Denis Kessler, divenuto principale lobbista dei fondi pensione, in "Prévoir les effets économiques du vieillissement" su Economie et Statistique, n&oord 233 del giugno 1990.

(10) Quest'argomentazione è sviluppata nei dettagli da Issac Johsua in un'opera collettiva che sarà pubblicata prossimamente dalle Editions Syllepse. Si legga inoltre Pierre Concialdi, "Le débat sur la retraite: l'alibi de la démographie", La Revue de l'IRES, n&oord 23, inverno 1997. Ripreso da Problèmes économiques, n&oord 2536, 1&oord ottobre 1997.

(11)Paul A. Samuelson, "An Exact Consumption- Loan Model of Interest with or without the Social Contrivance of Money", Journal of Political Economy, The University of Chicago Press, 1958.

(12) Olivier Davanne, Retraites et épargne, rapporto per il Consiglio di analisi economica, La Documentation française, Parigi, 1998.

(13) E' ciò che non teme di fare Martin Feldstein, riferimento obbligato in questo dibattito. Leggere "The Case for Privatization", Foreign Affairs, luglio-agosto 1997.

(14) Jerôme Cahuzac, nota all'attenzione di Augustin Bonrepaux e Didier Migaud, Assemblea nazionale, luglio 1998.

(15) Ocse, Maintaining Prosperity in an Ageing Society, Ocse, Parigi, 1998.
(Traduzione di P.M.)